Il colloquio con AccentiuR era stato un'ottima palestra. Era il primo che facevo e tutto sommato me l'ero cavata bene, ma dovevo diventare un pò più consapevole delle problematiche del mondo del lavoro.
E poi non sapevo proprio nulla di "comunicazione" e "atteggiamenti" da usare in ambito aziendale.
Comprai un Career Book e iniziai a spedire curriculum a quelle che mi sembravano le aziende adatte ad un giovane ingegnere delle telecomunicazioni: Telecom, Vodafone, Trenitalia, Fiat, Siemens, Motorola, e così via.
Non rispose nessuno di loro, e non mi stupii. Queste erano le principali aziende che stavano lasciando i loro dipendenti sulla strada. Era un periodo nero. (E lo è ancora, eh!)
Soltanto il mondo della consulenza sembrava disposto ad accogliere i neolaureati.
Tutte le altre aziende cercavano personale con esperienza almeno quinquennale in qualcosa.
La rete pullulava di annunci come questo:
Il candidato ideale deve avere i seguenti requisiti:
Età inferiore ai 35 anni; (OK, ci sono)
laurea in ingegneria informatica o delle telecomunicazioni o elettronica, con voto superiore a 105/110; (OK, ci sono)
ottima conoscenza della metodologia ASAP; (Uh?)
ottima conoscenza dei principi del project management; (Uh?)
un'esperienza significativa di almeno 5 anni nella gestione di progetti di realizzazione di soluzioni SAP maturata presso clienti e in contesti di elevata complessità; (Uh?)
disponibilità a trasferte periodiche in Italia e all’estero; (OK, questo posso farlo per un pò)
ottima conoscenza della lingua inglese. (Più o meno ...)
Più leggevo questi annunci, più mi rendevo conto che non avevo nulla da offrire. A parte la laurea, non c’erano particolari esperienze di cui potessi vantarmi. E avevo una concorrenza spietata: centinaia di neolaureati sul mercato, molti dei quali avevano parecchi punti di vantaggio su di me. Magari avevano studiato in atenei famosi e avevano svolto la tesi in azienda, durante uno stage. Io avevo frequentato l’università della mia piccola città meridionale e avevo presentato una tesi di ricerca ben lontana dalle problematiche aziendali. Avevo due pubblicazioni scientifiche che non interessavano affatto ai project manager.
Il mondo della ricerca in Italia era entrato in crisi già da parecchi anni.
Non essendo uno strumento di fatturazione rapida, aveva poco senso investire nella ricerca.
Io ero sempre stata più un topo di biblioteca che una stacanovista: per superare la concorrenza dovevo darmi da fare.
Iniziai a capire che il mondo del business era assai diverso dal mondo universitario.
In un azienda, l’uomo di successo era il furbo, il paraculo, quello che sapeva usare a proprio vantaggio ogni forma di espressione – parole, movimenti, immagini – per ottenere il proprio profitto.
Non avevo esperienza da vendere ma potevo mettere in luce tutta una serie di abilità trasversali come flessibilità, disponibilità, motivazione, intraprendenza e proattività e, ovviamente, dovevo badare all'aspetto. Presentarsi con un bell’aspetto fa sempre bene.
Quella roba sulle abilità trasversali l'avevo letta nel Career Book. Erano proprio dei termini sostanziosi. Li avrei messi in mostra alla prima occasione utile.
Per quanto riguardava l'aspetto, decisi di preparare un piccolo guardaroba “professionale”con tre tailleur, quattro camice a body, due paia di scarpe decollete, due soprabiti eleganti.
Provai a cercare lavoro nella mia città, Reggio Calabria, ma non c’era nessuno disposto ad assumere dignitosamente giovani ingegneri. Avevo ricevuto una sola offerta di lavoro da parte di un call center: un part time a 300 euro al mese.
L’unica soluzione era lasciare la città e andare più a Nord, una tendenza comune a tutti quelli che, a partire dall’Unità d’Italia, erano diventati meridionali.
Nessun commento:
Posta un commento